Cos’è la buona scuola? Come si insegna e cosa occorre fare in una buona scuola? Ma, soprattutto, una scuola può dirsi veramente buona se “si limita” a trasmettere saperi e nozioni?
Queste, in sintesi, le principali riflessioni che martedì pomeriggio, al liceo “Alessandro Manzoni” di Caserta, hanno animato il dibattito tra professori e pedagogisti italiani durante il convegno intitolato “Quando la scuola educa. Buone pratiche per le buone relazioni a scuola”.
Promosso dalla Fondazione Mario Diana Onlus, in collaborazione con il CTS Caserta (Centro Territoriale di Supporto ai Centri Territoriali per le Nuove Tecnologie nella Didattica per l’Inclusione) e con il patrocinio della Città di Caserta, l’incontro ha coinvolto oltre 200 partecipanti – tra dirigenti scolastici e docenti – avviando un confronto propositivo tra colleghi che ogni giorno svolgono una meravigliosa, ma allo stesso tempo delicata, missione: educare i giovani alla vita!
“La Fondazione Mario Diana, istituita in nome di mio padre, Mario, è la sintesi dell’impegno per la memoria con azioni di carattere sociale – ha dichiarato il presidente della Fondazione, Antonio Diana, introducendo i lavori del convegno -. I suoi moniti hanno sempre orientato le nostre scelte, perché già trent’anni fa mio padre affermava che per essere cittadini responsabili occorre essere uomini formati e consapevoli. Riconoscendo all’istruzione una forza motrice capace di favorire lo sviluppo personale, in un mondo sempre più globalizzato, la formazione e la conoscenza sono le leve per uno sviluppo personale delle giovani generazioni. La Fondazione investe sui giovani e sul loro futuro. E ancora oggi la scuola rimane il luogo privilegiato in cui la persona-studente si educa e “si forma”. La nostra Fondazione non farà mai mancare il proprio supporto a simili iniziative”.
Un supporto importante che dà coraggio e alimenta la passione degli insegnanti: “Ci riempie di orgoglio sapere che in un momento così delicato e difficile c’è ancora chi crede nel valore della scuola – ha sottolineato la preside del liceo Manzoni, Adele Vairo –. La nostra è una missione al servizio degli alunni, interagire con loro è il momento più bello delle nostre giornate. Solo attraverso un rapporto umano e sincero potremo ridurre il gap che sempre più spesso allontana i giovani dall’istruzione”.
Spunti di riflessione condivisi in pieno dall’Assessore alla Cultura e alla Pubblica Istruzione del Comune di Caserta, Daniela Borrelli, intervenuta al simposio in rappresentanza della Città di Caserta: “Da insegnante ho molto a cuore le problematiche che sta vivendo la nostra scuola, vivo con preoccupazione i dati dell’abbandono scolastico, la mancanza di servizi nei nostri istituti, i problemi di inclusione. Sono convinta che i cambiamenti del nostro tempo ci debbano far riflettere riportando al centro del dibattito il rapporto affettivo con l’alunno. La scuola dell’innovazione – la cosiddetta 4.0 – non deve farci dimenticare il valore del contatto tra esseri umani. Riportiamo al centro dei nostri obiettivi di educatori l’idea di una paideia globale in cui non si smette mai di imparare dal confronto e dalle relazioni. Sono convinta che il libro di Casey Carter rappresenti per noi tutti una guida e un sostegno validi”.
Le tematiche scelte dai relatori e gli spunti di riflessione lasciati ai docenti presenti si sono ispirati a “On Purpose”, il libro del ricercatore americano Samuel Casey Carter tradotto e pubblicato in lingua italiana dall’editrice Città Nuova, grazie al contributo della Fondazione Mario Diana.
Prima della conclusione è stata video proiettata un’intervista in cui l’autore spiega che il successo di una buona scuola dipende dalla dinamica relazionale che si instaura tra docenti e studenti, in primis, ma anche con personale amministrativo e dirigente. Il suo testo, attraverso la presentazione di 12 scuole eccellenti d’America, delinea i tratti essenziali di una comunità scolastica in grado di proporsi quale vera e principale risorsa formativa nella vita dei giovani.
Il convegno si è concluso con l’intervento del Segretario generale della Fondazione Mario Diana, Elpidio Pota, che ha proposto alcune esperienze e testimonianze sulle buone pratiche scolastiche del territorio casertano.
Di seguito riportiamo una sintesi degli interventi dei relatori:
“I rapporti stessi educano le persone – ha sottolineato Francesco Lo Presti, Ricercatore di Pedagogia Generale e Sociale all’Università Parthenope di Napoli -. Il paradosso è la forte cesura esistente tra teoria e pratica. La vera innovazione per una buona scuola è la dinamica con cui il docente si mette in relazione con gli allievi e con i nuovi strumenti tecnologici a sua disposizione. Il dato che continuo a raccogliere è che spesso, terminati gli studi, i docenti sono assaliti da un forte senso di inadeguatezza quando entrano in aula e prendono contatto con gli studenti. Per instaurare una relazione educativa “viva” è necessario lavorare sul passaggio dalla formazione professionale all’inserimento nel contesto lavorativo concreto. Mettersi in discussione è fondamentale per un docente, la via del dubbio dà strade possibili da percorrere per arrivare ai giovani. Solo se siamo disponibili a falsificare le nostre idee possiamo arrivare al cuore e ai bisogni degli alunni”.
“Una scuola buona e innovativa deve cercare di trasmettere un insegnamento sostenibile – ha sottolineato Monica Fedeli, Professore Associato in Didattica e Sviluppo organizzativo all’Università degli Studi di Padova -. Le strategie delle didattiche sostenibili sono pensate per far crescere la persona in una dimensione di relazioni continue e profonde. Tutti gli attori scolastici vanno coinvolti e devono essere in grado di far sentire le loro voci. La relazione studente-insegnante è componente fondamentale per l’apprendimento. Una buona didattica riesce a coinvolgere gli studenti come partecipanti attivi in tutte le pratiche di insegnamento e apprendimento”.
“Istruire a cosa serve? L’enorme bagaglio di conoscenze che trasmettiamo ai giovani serve davvero? O servono più lo stare insieme, la stima reciproca, riflettere… Senza tutto ciò, da sole, le conoscenze servono? E cosa è una mente ben formata? – ha subito chiesto Michele De Beni, Professore di Pedagogia della persona e della comunità all’Istituto Universitario “Sophia” -. Se è vero che istruire significa trasmettere conoscenza, allora l’istruzione non è riempire un secchio di cose e nozioni ma accendere un fuoco che si propaga. Significa insegnare a pensare con la propria mente perché solo chi impara a pensare bene potrà fare del bene. La scuola fa un salto di qualità quando riesce a creare ponti tra le conoscenze, legami tra saperi, quando mette gli allievi in condizione di riflettere, criticare, valutare… Una scuola in cui i professori siano prima di tutto esperti di umanità, disposti ad ascoltare la voce degli studenti. E’ questo ciò che conta davvero e riesce a dar valore ai diversi modelli di insegnamento”.
“La più attuale riflessione pedagogica pone al centro la dimensione dell’insegnare a vivere, a stare con gli altri, a gestire consapevolmente sé stessi quando si entra in relazione con l’altro – ha spiegato Fausta Sabatano, Direttore scientifico del CTS della Provincia di Caserta -. E’ una scommessa difficile ma essenziale: la vera sfida è l’inclusione! La scuola di oggi è chiamata a essere luogo effettivo di inclusione e di educazione all’inclusione. Un luogo in cui si realizzi l’obiettivo del ‘nessuno escluso’, in cui vengano poste al centro le persone e le relazioni. Non esiste educazione senza inclusione. Si deve pensare al binomio inclusione-educazione come a una sorta di endiadi. L’inclusione è un mezzo per giudicare l’educazione e quest’ultima tale non è se non rintraccia, realizza e promuove una logica di apertura e di accoglienza autentica verso la diversità, intesa come tratto che distingue ogni essere umano dall’altro. Ma il nodo cruciale da sciogliere è cosa sia l’inclusione per noi insegnanti. L’inclusione deve trasformarsi in una dimensione etica: siamo solo se siamo inclusivi. E’ questo il nostro banco di prova e il rapporto con i ragazzi sarà il nostro tribunale”.
“La cultura determina gli esiti. Nel nostro Paese ci sono 3 milioni di insegnanti che fanno il loro meglio per servire 52 milioni di ragazzi – ha spiegato Casey Carter alla giornalista che lo intervistava -. Spesso, però, abbiamo incontrato persone che reagivano a bisogni del momento, d’istinto. Noi proponiamo una semplice convinzione: una visione ferma, coerente e costante di ciò che è buono per i ragazzi ci porterà a raggiungere l’esito che desideriamo. Una cultura funziona quando è davvero impegnata per raggiungere il successo dei ragazzi. E’ importante che ci sia una cultura scolastica dell’educazione e della formazione altamente esigente. Come nei rapporti familiari: un padre e una madre guardano il loro ragazzo negli occhi spronandolo a dare il massimo e a fare di più, per il suo bene. Non gli nascondono che ci saranno difficoltà ma gli spiegano che solo il lavoro duro gli darà frutti notevoli. Anche a scuola deve essere così: i giovani devono potersi fidare dei loro insegnanti perché sanno che questi ultimi non gli nascondono la verità ma sono comunque al loro fianco, pronti a guidarli e a consigliarli ma lasciandogli la libertà di scegliere e sbagliare”.